14 luglio 1916 – Natalia Ginzburg

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Natalia Ginzburg con il suo “Lessico famigliare” mi è stata di grande conforto in questo periodo un po’ malinconico. Ho perduto di recente una persona cara – la quarta negli ultimi due anni – e la sua scomparsa, che chiude purtroppo il cerchio della famiglia “d’origine”, mi ha fatto riflettere sui legami familiari, sugli strani ed unici meccanismi che si instaurano fra persone unite da grande affetto. Della Ginzburg avevo letto in precedenza “La città e la casa”, uno dei suoi ultimi scritti, se non l’ultimo, che costituisce a mio giudizio l’antitesi stessa di “Lessico famigliare” rappresentandoci una famiglia in crisi, disunita, un nucleo fatto non di legami, ma di individualismi e solitudine.

Di “Lessico famigliare”, pubblicato nel 1963 da Einaudi e vincitore proprio in quell’anno del Premio Strega, non si può raccontare la trama, nel senso stretto del termine.

Si tratta, infatti, di un memoir dove la storia della famiglia Levi, ebrea ed antifascista, si intreccia con gli eventi che hanno caratterizzato la storia d’Italia negli anni ‘20/50 del ‘900. Attraverso Natalia, ultima di cinque figli – voce narrante bambina – conosciamo i componenti della famiglia:

  • il padre Giuseppe, sostenitore di regole rigide e ferrea disciplina, scienziato autorevole, biologo ed insegnante di quelli che diventeranno poi tre premi Nobel: Rita Levi-Montalcini, Renato Dulbecco e Salvatore Luria;
  • la madre, la milanese Lidia Tanzi, proveniente da una famiglia socialista cattolica, il cui padre, l’avvocato Carlo Tanzi, era buon amico del fondatore del Partito Socialista Filippo Turati e di Leonida Bissolati;
  • i cinque fratelli Levi: Alberto, Gino, Mario, Paola e Natalia, caratterialmente molto diversi ma animati dagli stessi valori e dalle medesime convinzioni

ed intorno alla famiglia Levi un caleidoscopio di intellettuali antifascisti che frequentavano la loro casa: Filippo Turati e Anna Kuliscioff, Cesare Pavese, il pittore Felice Casorati, Gian Carlo Pajetta, gli Olivetti, Vittorio Foa, Giulio Einaudi, Leone Ginzburg, Montale…

Il lettore vive con loro ed attraverso di loro il fascismo, le leggi razziali, le torture, il confino, la lotta antifascista.

E vive con i Levi il quotidiano: le poesie di Paul Verlaine, i  romanzi di Zola, il Lohengrin, i trasferimenti a Firenze, Sassari, Palermo e Torino, le amate gite in montagna del padre Giuseppe, così poco apprezzate dagli altri familiari, i colloqui amicali di Lidia Tanzi con il personale di servizio, gli amori dei giovani Levi, spesso criticati “a prescindere” da Giuseppe, l’orgoglio per la detenzione, gli appuntamenti conviviali con gli amici di famiglia, la condivisione scherzosa di aneddoti familiari, ripetuti ciclicamente perché restassero impressi nella memoria di tutti.

E quello straordinario “lessico”, soprattutto di Giuseppe Levi, che diviene la cifra della famiglia, quelle strane espressioni  e parole – talvolta onomatopeiche – che inducono simpatia nel lettore e lo fanno riflettere su quali siano quelle che caratterizzano la propria famiglia: le “babe”, “ciuciottare”, “punciottare”,  “Non fate malagrazie!”, “Non fate sbrodeghezzi!”, “Non fate potacci”,  “Non fate delle negrigure!”,  “Sempre a dir sempiezzi!”……

Natalia Levi nasce a Palermo il 14 luglio 1916, dove il padre lavora come professore di anatomia comparata all’Università del capoluogo siciliano. Consegue la licenza elementare con l’ausilio di un istitutore privato e, dopo la scuola media, si iscrive al Liceo Vittorio Alfieri di Torino. Si appassiona fin da giovanissima alla composizione poetica ed alla scrittura di prose efficaci tanto che, dopo aver abbandonato la Facoltà di Lettere, nel 1933 pubblica il suo primo racconto, “I bambini”, ed a 21 anni traduce l’opera “Alla ricerca del tempo perduto” di Marcel Proust. Come detto in precedenza cresce in un ambiente culturale ed intellettuale molto vivace, in anni che vedono l’ascesa di Mussolini e del fascismo, la negazione dei diritti degli ebrei, l’emarginazione, la detenzione del padre e dei tre fratelli. Nel 1938 sposa Leone Ginzburg – conosciuto attraverso il fratello Mario – e come lui appartenente al movimento “Giustizia e Libertà”, da cui avrà i figli Andrea, Alessandra e Carlo. A Torino i coniugi Ginzburg frequentano gli intellettuali antifascisti, in modo particolare gli ex allievi del liceo classico D’Azeglio che nel 1933 avevano fondato la Casa Editrice Einaudi: Giulio Einaudi, Norberto Bobbio, Massimo Mila, Cesare Pavese, Giaime Pintor. E proprio presso la Einaudi Leone Ginzburg inizia a lavorare dopo aver perso la docenza in letteratura russa presso la facoltà di Lettere, in quanto si rifiuta di prestare il giuramento al regime. Con l’entrata in guerra dell’Italia nel 1940, Ginzburg viene arrestato e mandato al confino a Pizzoli, in Abruzzo, dove soggiornerà assieme alla famiglia fino alla caduta del fascismo. Nel 1943, quando Leone si trasferisce a Roma dove dirige il giornale clandestino “L’Italia libera”, Natalia ed i suoi figli restano inizialmente a Pizzoli ma, alla notizia del nuovo arresto di Leone, si precipita a Roma dove però non riuscirà più ad incontrare il marito che muore in carcere per le torture subite nel febbraio del 1944. Natalia torna quindi definitivamente a Torino dove viene assunta da Einaudi, unica donna in un contesto maschile. Nel 1950 sposa l’anglista Gabriele Baldini, da cui avrà due figli, purtroppo scomparsi entrambi prematuramente. E’ questo un periodo particolarmente ricco riguardo la produzione letteraria: pubblica saggi, romanzi, commedie e traduzioni. Dalla fine degli anni ’60, quelli della “strategia della tensione”, intensifica il suo attivismo politico che la porta in Parlamento nel 1983 dove viene eletta nelle liste del Partito Comunista Italiano. Muore a Roma l’8 ottobre 1991.

di Silvia Corsinovi

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