7 marzo 1856 – Matilde Serao

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Lo scorso gennaio, mentre cercavo informazioni sulla festeggiata del mese, ovvero Edith Wharton – la pupilla di Henry James – mi sono imbattuta in una sua frase che riferiva di un incontro tenutosi a Parigi, nel salotto della contessa Rosa de Fitz-James: “Tra le donne che ho incontrato là, la più straordinaria è stata senza dubbio Matilde Serao, la scrittrice e giornalista napoletana. Con il suo abbigliamento e la sua cadenza stridenti, appariva assurda in quel salotto, dove tutto era in penombra e in semitono. Ma quando incominciava a parlare era padrona del campo. Primeggiava per spirito ed eloquenza. Aveva un senso virile del fair-play, sapeva ascoltare e non si dilungava mai troppo su un argomento, ma interveniva con le sue battute al momento giusto. I suoi monologhi raggiungevano altezze superiori alla conversazione di qualsiasi altra donna che io abbia conosciuto, e la cultura e l’esperienza si fondevano nello splendore della sua poderosa intelligenza».
Poteva questa, la frase di un premio Pulitzer, non scatenare la mia curiosità verso colei che da più parti è considerata una delle colonne del giornalismo al femminile in Italia? No, non poteva.

Avevo in mente di aver letto un bel po’ di tempo fa “La moglie di un grand’uomo (ed altre novelle)” del quale non avevo, ahimè, alcun ricordo, in ogni caso non un ricordo vivo, come si ha di alcune novelle di Verga, di Buzzati o di Pirandello… Ho quindi deciso che, anziché andare a rispolverare un’antica lettura, mi sarei approcciata a “Il ventre di Napoli” e questo per una duplice ragione: intanto perché amo questa magnifica città, in secondo luogo perché il titolo mi riportava al romanzo di Émile Zola “Il ventre di Parigi”, altra città che ha avuto ed ha un significato molto importante nella mia vita.
“Il ventre di Napoli” è definito un romanzo sociale anche se – personalmente – l’ho percepito più come un’inchiesta/reportage. Prende l’avvio dall’epidemia di colera che flagellò Napoli nel 1884: circa settemila decessi che costituirono oltre i due terzi delle morti totali registrate in Italia. L’allora Sindaco, Nicola Amore, mise al corrente le Istituzioni nazionali circa la tragedia che i napoletani stavano vivendo e fu così che il Primo Ministro Agostino Depretis, accompagnato dal Re Umberto I, giunse in città  per toccare con mano il dramma di quei giorni. E fu proprio la frase di Depretis “Bisogna sventrare Napoli”, che diede il via alla “Legge per il risanamento di Napoli” che condusse ad un colossale intervento urbanistico attraverso il quale interi quartieri vennero demoliti e cambiò per sempre il volto della città.
A seguito di questo intervento Matilde Serao scrisse numerosi articoli che confluirono poi nell’opera “Il ventre di Napoli”, dove la Serao accusava il Governo di aver messo in piedi una mera operazione di restyling, divenuta a breve una grande speculazione edilizia, senza conoscere a fondo le esigenze della gente che viveva in quei luoghi e che non abitò mai le nuove case costruite, perché non poteva permettersi quegli affitti. E così, la sanguigna Matilde, decise di raccontare a Depretis ed a noi tutti, come una madre severa ma follemente innamorata, la storia di quel “ventre” e dei suoi abitanti reietti ed abbandonati.

L’incipit colpisce come una stilettata:
“Efficace la frase, Voi non lo conoscevate, onorevole Depretis, il ventre di Napoli. Avevate torto, perchè voi siete il Governo e il Governo deve saper tutto……. il governo a cui arriva la statistica della mortalità e quella dei delitti; il governo a cui arrivano i rapporti dei prefetti, dei questori, degli ispettori di polizia, dei delegati; il governo a cui arrivano i rapporti dei direttori delle carceri; il governo che sa tutto: quanta carne si consuma in un giorno e quanto vino si beve in un anno, in un paese; quante femmine disgraziate, diciamo così, vi esistano, e quanti ammoniti siano i loro amanti di cuore, quanti mendichi non possano entrare nelle opere pie e quanti vagabondi dormano in istrada, la notte; quanti nullatenenti e quanti commercianti vi sieno; quanto renda il dazio consumo, quanto la fondiaria, per quanto s’impegni al Monte di Pietà e quanto renda il lotto. Quest’altra parte, questo ventre di Napoli, se non lo conosce il Governo, chi lo deve conoscere? E se non servono a dirvi tutto, a che sono buoni tutti questi impiegati alti e bassi, a che questo immenso ingranaggio burocratico che ci costa tanto? E, se voi non siete la intelligenza suprema del paese che tutto conosce e a tutto provvede, perchè siete ministro?”

Parte da qui, attraverso un’impietosa descrizione giornalistica, il nostro viaggio attraverso i vicoli della città, allagati da acque luride, ci fermiamo poi nelle botteghe e nelle stamberghe che qualcuno ha il coraggio di definire “case”, e riusciamo persino a percepire i profumi e gli afrori che salgono da quelle viuzze strette e sconnesse. La Serao ci parla di sovraffollamento, di condizioni igienico-sanitarie inesistenti, di piccola delinquenza, di truffe e ruberie, di usura e stregoneria, ma ci fa conoscere anche l’umanità, la resilienza del popolo napoletano, il suo rapporto con la religione, i riti e le usanze adottate per sconfiggere un presente fatto di fame e disgrazia e il costante ricorso all’ “acquavite dei napoletani” – il lotto – che poteva regalare il sogno di un futuro migliore.

“Ma come tutti i sogni troppo pronunziati, il lotto conduce alla inazione ed all’ozio: come tutte le visioni, esso porta alla falsità e alla menzogna; come tutte le allucinazioni, esso conduce alla crudeltà e alla ferocia; come tutti i rimedi fittizi che nascono dalla miseria, esso produce miseria, degradazione, delitto. Il popolo napoletano, che è sobrio, non si corrompe per l’acquavite, non muore di delirium tremens; esso si corrompe e muore pel lotto. Il lotto è l’acquavite di Napoli”

Matilde Serao nasce il 7 marzo 1856 nel Peloponneso, a Patrasso, da madre greca e padre campano, l’avvocato Francesco, esule in Grecia a causa delle sue idee antiborboniche. Dopo l’unità d’Italia la famiglia rientra a Napoli, dove Matilde, conseguiti gli studi magistrali, trova impiego nei Telegrafi di Stato. L’amore per la lettura e la scrittura la conduce a Roma dove collabora al “Capitan Fracassa”, al “Fanfulla della Domenica”, alla “Nuova Antologia” e alla “Cronaca Bizantina”, trattando argomenti che spaziano dalla critica letteraria alla cronaca rosa. Nel 1883 pubblica il romanzo “Fantasia” che conquista l’interesse dei lettori e della critica, ma non il poeta/giornalista Edoardo Scarfoglio, suo futuro marito e padre dei suoi quattro figli, che lo ritiene un’opera imperfetta. Gli anni successivi la vedono impegnata nella stesura di diversi romanzi, ma non abbandona l’attività giornalistica, fondando assieme al marito “Il Corriere di Roma” prima e, a seguito del rientro a Napoli, “Il Corriere di Napoli” poi, sul quale appaiono contributi importanti come quelli di Giosuè Carducci e Gabriele D’Annunzio. Nel 1891 la coppia dà il via a “Il Mattino” di cui diviene condirettrice fino al 1904. Il matrimonio inizia a vacillare a causa dei ripetuti tradimenti del marito e si conclude quando l’ultima amante, la cantante francese Gabrielle Bessard, lascia la bimba nata dalla loro relazione, Paolina, alla porta di casa di Scarfoglio e si toglie la vita. L’istinto materno della Serao ha la meglio: accetta Paolina e la cresce assieme ai suoi figli. Con il matrimonio termina anche la sua esperienza a “Il Mattino”, travolto in quel periodo da un’inchiesta alla quale la Serao si proclamerà sempre estranea. Continua la sua produzione letteraria ma l’immenso amore per il giornalismo, la conduce il 27 marzo 1904 a dare alle stampe il primo numero de “Il Giorno”. Questa nuova esperienza editoriale le offrirà l’incontro con Giuseppe Natale, avvocato e giornalista, che sarà il compagno dei suoi ultimi anni. Nel 1926 viene candidata al Premio Nobel per la letteratura, che verrà poi assegnato a Grazia Deledda a causa dell’opposizione di Mussolini, che non le perdona la sua palese avversione al fascismo. Da tempo malata di cuore Matilde Serao si spenge il 27 luglio 1927 per un infarto mentre si trovava al suo amato tavolo di lavoro.

di Silvia Corsinovi

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