PREMIO NOBEL LETTERATURA: anno 1934 Luigi Pirandello

Categorie:

Nel 1934 il Premio Nobel per la Letteratura venne assegnato a me, Luigi Pirandello, “per il suo ardito e ingegnoso rinnovamento dell’arte drammatica e teatrale”.

Sono nato ad Agrigento il 28 Giugno 1867. Mio padre Stefano e mia madre, Caterina Ricci Granito, appartenevano a due famiglie borghesi agiate, di tradizione risorgimentale. Mi misero al mondo in contrada Càvusu quando ancora la nostra città portava il nome arabo di Girgenti. Mio padre, a causa di una epidemia di colera che aveva colpito la Sicilia, decise di trasferire la famiglia da Porto Empedocle, che allora era Borgata Molo di Girgenti, in una tenuta di campagna isolata onde evitare il contagio. Mio padre era stato un Garibaldino e mia madre era la sorella di un suo commilitone, lo zio Rocco. Il mio nonno materno era stato tra gli esponenti di spicco della rivoluzione siciliana del 1848-1849 e visto che i Borbone non lo avevano amnistiato, dovette scappare a Malta dove morì ancora giovane. Mentre il mio bisnonno paterno era stato un ricco armatore e uomo d’affari di Pra’ (Genova). La mia era quindi una famiglia agiata che viveva del commercio e dell’estrazione dello zolfo. Ho avuto un’infanzia serena anche se il dialogo con i miei genitori, con mio padre in particolar modo, è sempre stata molto difficile. Ciò però mi stimolò ad affinare le mie capacità espressive e a studiare il modo di comportarmi col prossimo per cercare una migliore corrispondenza. Soffrivo d’insonnia e riuscivo a dormire solo tre ore per notte ed ero anche molto devoto e osservante influenzato da una nostra domestica che mi avvicinò alla religione ma che mi inculcò anche credenze superstiziose, fino a convincermi della presenza non proprio rassicurante degli spiriti. Per tutta la vita cercai di raggiungere un’esperienza mistica, anche se mi allontanai dalla Chiesa quando scoprii che un prete aveva truccato un’estrazione a sorte per farmi vincere un’immagine sacra: ne rimasi così deluso che mi allontanai per sempre dalla Chiesa pur continuando a praticare una religiosità diversa da quella ortodossa. Ebbi un’istruzione elementare privata, poi venni iscritto alla regia scuola tecnica di Girgenti ma durante un’estate, di nascosto da mio padre, preparai gli esami per passare agli studi classici. Avevo 14 anni quando la famiglia venne colpita da un dissesto finanziario e fummo costretti a trasferirci a Palermo, dove frequentai il Ginnasio e dove rimasi anche quando i miei tornarono a Porto Empedocle. Mi ero appassionato alla letteratura, tanto che a undici anni scrissi la mia prima opera “Barbaro” che non potrete mai leggere perché è andata perduta. Per un po’ di tempo aiutai mio padre nel commercio dello zolfo, un’esperienza che mi permise di conoscere il mondo degli operai nelle miniere e quello dei facchini del porto. Nel 1886 iniziai l’Università a Palermo, poi proseguii gli studi in filologia romanza a Roma che conclusi a Bonn a causa di divergenze con il rettore. Bonn era un centro culturale molto importante e mi permise di conoscere grandi maestri. Devo dire che durante la mia permanenza all’estero mantenni rapporti epistolari con la mia famiglia molto stretti ma non sempre sinceri, inventando successi inesistenti, incontri mai avvenuti e l’imminenza della laurea che era tutt’altro che vicina ma avevo bisogno di denaro. A Bonn conobbi una ragazza, Jenny Schulz-Lander, della quale mi innamorai e andammo a vivere insieme nella pensione di proprietà di sua madre. A lei dedicai i versi di “Pasqua di Gea” nei quali la descrivo così “…lucifera fanciulla, tu che il mio tutto sei e pur, forse, sei nulla” ma l’ho ricordata anche in “Fuori chiave”. Ci lasciammo e io tornai a Roma, non la rividi più, lei mi scrisse 40 anni dopo ma io non le risposi: era diventata una scrittrice. A Roma conobbi Luigi Capuana che mi aiutò molto ad introdurmi nel mondo letterario e nei salotti intellettuali della capitale ma poi tornai a Girgenti dove nel 1894 sposai Maria Antonietta Portulano, figlia di un ricco socio di mio padre e cugina di secondo grado, un matrimonio concordato che risollevava la mia famiglia dai problemi economici ma nacque tra noi anche l’amore e la passione. Grazie alla dote di Maria Antonietta potemmo trasferirci a Roma, dove nacquero i nostri tre figli: Stefano, Rosalia Caterina (la nostra Lietta) e Fausto Calogero. Purtroppo nel 1903 l’allagamento e una frana nella nostra miniera di zolfo ad Aragona, nostra principale fonte di sostentamento ci ridusse in miseria. Antonietta aveva già qualche problema dovuto ad un disagio mentale e questa catastrofe, insieme alla sua indicibile gelosia che ci costringeva anche a periodi di separazione, contribuì al suo peggioramento. La sua era una forma di schizofrenia e paranoia che la portavano ad aggredire qualsiasi donna mi rivolgesse la parola, persino contro Lietta che, a causa di ciò prima tentò il suicidio e poi se ne andò da casa. La partenza di Stefano per la Grande Guerra, la sua prigionia in un campo di concentramento dove si ammalò, i vani tentativi per poterlo liberare peggiorarono ulteriormente una situazione già di per sé drammatica ma non volli abbandonarla anche se nel 1919 fui costretto, mio malgrado, a ricoverarla in una casa di cura a Roma dove ha vissuto per quarant’anni. Dopo il disastro della miniera dovetti mantenere la famiglia insegnando, impartendo lezioni private e poi collaborando con il Corriere della Sera. Il grande successo arrivò con il romanzo “Il fu Mattia Pascal” pubblicato nel 1904, fu un successo di pubblico ma non di critica come del resto sarebbe accaduto con molti altri miei lavori e ciò ferì molto il mio orgoglio, anche perché vedevo elogiati autori che detestavo come D’Annunzio e Pascoli. Nel 1922 iniziai a interessarmi al teatro con grande successo, tanto che nel 1925 fondai la  Compagnia del Teatro dell’Arte di Roma con Marta Abba e Ruggero Ruggeri: viaggiammo per il mondo giungendo a rappresentare le mie commedie anche a Broadway. Nel 1934 arrivò il Nobel, terzo italiano ad esserne insignito, poi arrivò il cinema con la trasposizione di molte mie opere, mi recai persino ad Hollywood per assistere alla lavorazione dei film con interpreti famosi come Greta Garbo, nell’ultimo viaggio del 1935 Albert Einstein mi invitò a Princeton per conoscermi. In quell’occasione, durante una conferenza stampa, difesi a spada tratta la politica estera del Fascismo sostenendo la guerra d’Etiopia e, lo ammetto, usai una certa veemenza nell’accusare i giornalisti americani di ipocrisia in considerazione del colonialismo perpetrato ai danni dei loro nativi. Nel 1924 avevo aderito al Fascismo e questo mi causò non pochi attacchi ma le mie idee erano decisamente più vicine a quel pensiero, benché ritenessi la classe dirigente rozza e volgare e provassi un deciso disprezzo per la classe politica che avrei volentieri voluto vedere cancellata completamente e il Paese guidato e istruito da una specie di monarca illuminato. I miei detrattori affermavano che avessi aderito al Fascismo per ottenere i fondi necessari per finanziare la mia Compagnia teatrale, in realtà ne ricevetti ben pochi, in quanto il regime preferiva altri poeti al sottoscritto, perché nelle loro opere rispecchiavano gli ideali fascisti non riscontrabili nelle mie, ma la mia appartenenza al Partito non fu mai silente e accondiscendente, anzi io mi definivo apolitico e arrivai a strappare la tessera davanti al Segretario Nazionale. Il Nobel non migliorò la considerazione nei miei confronti: ero accusato di disfattismo e finii nelle liste dei controllati speciali dell’OVRA, la polizia di regime. Il Duce fece sequestrare la mia opera “La favola del figlio cambiato” perché ritenuta non consona e mi impose la regia dell’opera di D’Annunzio “La figlia di Iorio”, proprio a me! Nel 1936, durante le riprese di un film tratto dal mio “Il fu Mattia Pascal” mi ammalai di polmonite, avevo già avuto due attacchi di cuore in passato che mi avevano debilitato nel fisico, per non parlare poi delle difficili prove che la vita mi aveva imposto: dopo 15 giorni lasciai questa vita terrena e incompiuto il mio ultimo lavoro teatrale “I giganti della montagna”, terminato poi da mio figlio Stefano. Lasciai tra le mie volontà testamentarie che non venissero celebrati funerali mettendo in forte imbarazzo il regime che avrebbero voluto funerali di Stato, tanto che Mussolini ordinò alla stampa che venisse solamente diffusa la notizia e nulla più. Vennero rispettate le mie volontà espresse nel testamento scritto nel 1911: «Carro d’infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m’accompagni, né parenti né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta. Bruciatemi». Quindi, come avevo richiesto venni cremato senza cerimonie nemmeno postume, le mie ceneri vennero riposte in una preziosa anfora greca che possedevo, tumulata nel cimitero del Verano a Roma. Nel 1947 Andrea Camilleri, con alcuni studenti, riuscirono con enormi difficoltà a far seppellire le ceneri nel giardino della villa di contrada “Caos” dove ero nato, così come avevo richiesto. A dire il vero avrei voluto che venissero disperse ma non fu possibile, solo anni dopo una piccola parte delle miei ceneri rimasta attaccata alle pareti dell’anfora venne dispersa come avevo richiesto. Vi ho raccontato la mia vita e molto altro ci sarebbe da dire, le mie opere le conoscete tutti e il mio pensiero è tutto in esse contenuto, aggiungo solo per pura curiosità che mi è stato dedicato l’asteroide 12369 Pirandello. A voi lascio il ricordo di questa poesia.

LE FATICHE DEL VENTO

Molto ha da fare il vento con le nuvole

frivolo annento senza disciplina.

Piace al sole con pompa e con ossequio

d’esser accolto in cielo ogni mattina:

e fin dall’alba ecco il vento in servizio

a preparargli una regal cortina,

a cui con estro immaginoso ingègnasi

a dar novella foggia; e ne combina

spesso di belle assai: rosse, con aurea

frangia o d’argento con purpurea trina.

Sul vespro poi, nuovo apparato! Gli uomini

soglion tra loro chiamar pazzo il vento:

forse perchè si pensa che non debbono

costar fatica alcuna, alcuno stento,

que’ suoi servizi; ma, se gli si sbandano

le nubi, e il Sol se ne va via scontento? 

Se ogni villan vuoI acqua sul proprio 

campicello, e lui su pel firmamento, 

gira e rigira, non trova una nuvola,

quando poche sarebbero anche cento?

Nessuna risposta.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *